Africa.
Sono le sei e trenta e il sole sta per tramontare.
La nostra Jeep continua a macinare chilometri alzando nuvole di sabbia, mentre corre su una strada sterrata, colorata di un rosso vermiglio.
Il manto stradale è destinato alle strade principali, e noi stiamo andando ad Iguguno, un piccolissimo villaggio nel cuore della Tanzania in provincia di Singida.
Di strade asfaltate, lì intorno, non ce ne sono.
Mio papà Francesco è seduto davanti. Marisa, mia mamma, ha un fazzoletto colorato sul viso per evitare di respirare la sabbia proveniente dall’esterno, che continua ad entrare nonostante i finestrini chiusi. Ci sono anche mio fratello più grande Pierbruno, la mia sorellina Maria Irene e le nostre due amiche suore.
Una delle due si chiama Scolastica; “sista” (sorella) Scola per gli amici. È il nostro angelo custode, il nostro riferimento in Tanzania. Le mandiamo i soldi da distribuire a tutti i ragazzi che aiutiamo a studiare, è lei che gestisce tutti i progetti umanitari a cui tentiamo di dar vita.
Sista Scola è la nostra guida, una persona incredibile, un’anima generosa e buona come non ne ho mai incontrate. Un angelo, appunto, con cui i miei genitori hanno un fortissimo legame. Ogni volta che ci parlano al telefono è una grande emozione.
In Africa, quando si viaggia, è sempre consigliato farlo con persone del posto. Di solito abbiamo un ragazzo di fiducia che ci fa da autista e che si prende cura della macchina per tutto il tempo che siamo qui. Sono uomini tuttofare, conoscitori della regione, delle strade e della gente. Uno di loro, per quanto ci teneva alla riuscita del nostro viaggio, tutte le notti dormiva sul tettuccio del fuoristrada per paura che lo rubassero.
Eppure, questa volta siamo solo noi cinque e due suore cattoliche, nel bel mezzo del niente.
Mancano solo 30 minuti all’arrivo, ma *clack*, qualcosa taglia la gomma della ruota. Foriamo.
Quasi a farlo apposta si fa buio, tutto ad un tratto. Siamo nel nulla cosmico di un’Africa sconosciuta, con una ruota bucata e una Jeep inclinata a lato di una strada piena di fossi.
Io e mio fratello, allora quattordicenni, ci guardiamo spaventati. Sì, perché in Africa una volta che cala il buio, è buio vero. Non ci sono luci lungo la strada e l’unica fonte di luminosità sono i fari delle macchine e dei camion giganti che ti sfrecciano accanto raramente.
Prende iniziativa papà. Si lancia letteralmente sotto alla macchina e con una torcia in bocca comincia a lavorare per tirar via la ruota di scorta. Prendiamo coraggio. Come una squadra, ognuno con la sua mansione, cominciamo a cambiare la ruota. Tiriamo su la macchina col cric. Prendo la chiave e mi sento il miglior svitabulloni del mondo.
Nel frattempo, sentiamo un fruscio provenire dai campi.
Panico.
“Ecco adesso escono quattro incappucciati col coltello, ci minacciano, ci rapinano e ci ammazzano. É finita!”, penso tra me e me. Invece piano piano realizziamo che quel fruscio, quei movimenti sul lato della strada, erano quelli delle persone che tornavano a casa.
In religioso silenzio tantissimi tra donne e uomini, bambini e anziani, camminavano in entrambe le direzioni. Si erano svegliati presto e avevano cominciato a camminare per dare un senso alla giornata. Camminare per andare a scuola, o per andare in città. Camminare per andare a prendere l’acqua, o per lavare i vestiti.
Una delle cose che ho imparato, è che in Africa si tratta sempre e comunque di camminare.
Passano i minuti, la ruota è di nuovo al suo posto. Ci sentiamo uniti, ci sentiamo forti, come una di quelle famiglie dei film. Mio padre accende il motore.
Torniamo verso casa.
Nella mia memoria dell’Africa, c’è un’altra gomma bucata, nel parco nazionale del Tarengeri.
Avevamo appena superato un gruppo di elefanti tenendoci a debita distanza (se mamma elefante sospetta del pericolo…sono cazzi!), quando la gomma del fuoristrada si fora.
Siamo in un parco nazionale, con animali totalmente liberi di vivere allo stato brado. Avremmo potuto essere aggrediti facilmente. Per fortuna, due accompagnatori ci hanno aiutato e siamo sopravvissuti anche quella volta. Non avevo mai visto mia madre così spaventata: ci chiuse in macchina vietandoci di scendere fino alla fine dell’operazione. “Non fate gli stupidi e restate dentro, potrebbero esserci dei grandi felini”, ci disse. L’idea di incontrare un leone era alquanto affascinante, ma forse la mamma aveva ragione.
Mamma Marisa e papà Francesco sono entrambi medici. Decidono di dedicare più di 2 anni della loro vita agli altri. Cominciano a fare volontariato e all’inizio del 1988 partono per la Tanzania, dopo aver collaborato con l’associazione LVIA e aver studiato la lingua swahili per diversi mesi, prima a Cuneo, poi direttamente sul posto. Partono senza certezze. Senza smartphone. Senza nessuno. Solo loro due, il loro amore, e le loro competenze. Saranno due anni importanti, che cementeranno la loro relazione e metteranno le basi per la nostra famiglia.
In quel periodo, per rimanere in contatto con i nostri parenti, ogni due settimane mandano una lettera in Italia, perché le telefonate costano troppo e i posti in cui effettuarle sono davvero rari.
Ogni volta che arriva una loro lettera, a Chieti, dove si trova il resto della mia famiglia, è come se fosse festa. Mio nonno Rinaldo le ha conservate tutte, e fino a qualche anno fa quando andavo a trovarlo mi chiedeva di rileggerle perché così lui, ormai diventato cieco, poteva rivivere ad occhi chiusi le emozioni di quel periodo.
Una prima gravidanza non va bene. Dopo 3 mesi, Marisa perde il bambino e passa un periodo difficile.
Non si perde d’animo, è una donna forte, e così il 27 Aprile del 1990, accade quello che è quasi un miracolo. A Itigi, una piccola cittadina, in un ospedale fatiscente nasce Pierbruno, il primo bambino bianco mai nato in quella zona.
Sarà soprannominato “Mwendwa” (amato, caro), dalla gente del posto. Quella stessa gente che, rivendendolo dopo 10 anni, lo acclama. Lo tratta come un fratello. Lo ama, come un fratello.
Perché l’Africa è anche questo: empatia, umanità, fratellanza, condivisione.
L’Africa rende tutto più semplice. Ti fa guardare all’essenziale. Ti insegna l’amore per il prossimo, il rispetto per il diverso. Perché fondamentalmente, lì, il diverso non esiste. Lì siamo tutti figli di uno stesso cielo.
Un giorno Padre Oliver, un prete conosciuto in uno dei nostri tanti viaggi, toccandosi il volto disse: “Lo vedi di che colore è la mia pelle? È diversa dalla tua.” Poi, prendendo il polso di mio padre continuò: “Ma tu sei un medico, quindi lo sai di che colore è il sangue. Hanno lo stesso colore, il tuo e il mio.”
Io sono nato a Roma, così come mia sorella, ma siamo tornati diverse volte in quella parte dell’est Africa vicino all’equatore. Ormai la sentiamo anche nostra.
Il mio primo viaggio fu nel 1992, quando avevo solo un anno. L’ultimo nel 2007. Per la precisione sono sei le volte in cui quei pazzi dei miei genitori ci hanno messo su un volo per Nairobi o Dar es Salaam.
Ma non faccio che ringraziarli tutt’oggi, per tutto questo.
Perché l’Africa si può raccontare, ed è un racconto che affascina. La puoi ammirare ed emozionarti vedendola in foto o puoi restarne incantato tramite documentari in tv. Ma solo se vissuta davvero in prima persona ci aiuta a diventare persone migliori.
Lì ho imparato ad apprezzare il valore del tempo. In Tanzania è come dilatato, e se ti ci vogliono due ore a piedi per andare a scuola ed altrettante per tornare, inizi a comprendere che per fare bene una sola cosa ti ci vuole anche tutto il giorno. E in quella giornata hai comunque fatto qualcosa di speciale.
In Africa ho compreso anche il valore dei beni di prima necessità e di quanto siamo fortunati. Acqua potabile, acqua calda, cibo, medicine, un tetto sopra la testa. Lì tutto questo non è scontato.
Le prime parole che ho imparato in swahili sono state “Naomba maji ya kunywa”, che significa “vorrei dell’acqua da bere”. Sì perché l’acqua, “maji” (pronunciato “magi”, come magia) usata per bere è diversa da quella usata per lavarsi. E lavarsi vuol dire riempire un bicchiere e lanciarselo addosso.
Già l’acqua…
Un giorno eravamo diretti ad Arusha, cittadina nel nord della Tanzania, quasi al confine col Kenya. Era una tappa per spezzare il viaggio in direzione Nairobi, da cui avremmo preso l’aereo per tornare a casa. Otto ore dentro un fuoristrada. Alla fine di quel tragitto avevamo i denti e i capelli pieni di sabbia e polvere, i vestiti sudati per il caldo mai sentito prima ed avevamo tirato innumerevoli testate al tettuccio della macchina, a causa delle buche lungo la strada. Nell’arrivare a destinazione troviamo finalmente un ristorante per rifocillarci. Sognavamo da ore una Coca Cola o una Sprite fresca, quasi a dare un senso a quella giornata.
Invece, una volta seduti a tavola, quale fu la richiesta di Sista Scola?
“Maji moto”.
Che vuol dire “acqua calda”. Avete letto bene: acqua calda.
Era troppo abituata a berla, perché spesso c’è il bisogno di farla bollire per renderla potabile.
Una volta, dopo aver assaggiato per la prima volta nella sua vita l’acqua frizzante, esclamò: “Cos’è?! Una medicina?”.
In Tanzania, come in gran parte dell’Africa, riesci a dare un vero valore alla gioia, nonostante tutto.
La povertà delle persone è talmente tangibile da crearti sgomento.
I villaggi hanno case di terracotta letteralmente senza il tetto, con delle tende a sostituzione delle porte.
I bambini, quelli che vanno a scuola, hanno la divisa e la tengono tutto il giorno. Non hanno ricambi. La maggior parte di loro camminano e corrono con una scarpa sola. Sono talmente abituati a girare scalzi che quando giocavamo a calcio con loro, era il piede nudo quello che usavano per colpire la palla.
In Tanzania, ho capito che correre dietro ad un pallone dona una felicità che aiuta a sopperire a molte altre mancanze. Si vive anche e soprattutto di emozione per le piccole cose. Il sorriso innocente di un bambino che riceve in regalo una semplice matita non si può spiegare, si deve vivere.
Ho imparato l’importanza della riconoscenza verso chi ti ha donato qualcosa.
Ho ammirato la forza degli adulti, il rispetto per gli anziani. La fede in Dio e l’energia di una comunità durante un giorno di festa.
Ho capito l’importanza dello studio e quanto esso sia l’unico mezzo per migliorare la propria vita. Per avere la possibilità di costruirsi un futuro dignitoso. Libero.
Lasciate che vi racconti di Inyazi.
Aveva 30 anni e già 7 figli, quando si presentò al corso per operatori di salute che teneva mio padre nei villaggi intorno a Singida. Il corso durava 9 mesi e terminava con un esame finale, e l’obiettivo era informare gente del posto sulle norme di salute, sulla sanità, sull’igiene, provando a trasformarli in “village health workers”.
Inyazi risultò essere il migliore in assoluto di 11 classi. Dopo un mese si presentò a casa dei miei, a testa bassa e super imbarazzato. Confessò di aver falsificato il certificato di quinta elementare di suo fratello, senza il quale non sarebbe stato ammesso al corso. Lui non lo aveva perché non era mai andato a scuola.
I miei rimasero doppiamente sbigottiti. Prima di tutto per la confessione. Successivamente per le capacità dimostrate senza mai aver ricevuto alcun tipo di istruzione. Così la prima cosa che chiesero fu come avesse imparato a leggere e scrivere.
“Un giorno da un camion volò un pezzo di giornale. Mio nonno lo raccolse e mi insegnò con quello.” Rimasero completamente senza parole.
Durante il nostro ultimo viaggio Inyazi ha mandato suo figlio per invitarci a pranzare a casa sua. “Dovete venire assolutamente, papà ha rifatto il tetto di casa, è molto orgoglioso e vuole farvelo vedere!”. Così ci siamo recati da loro, su una collina terrosa. Lui, sua moglie e i suoi figli ci hanno accolto con gioia, offrendoci pollo, frutta e chapati (delle piadine straordinarie fatte in casa). Inyazi ci ha raccontato che i suoi figli stavano studiando tanto e bene, grazie ai nostri amici italiani che a distanza pagavano loro gli studi. Lui e sua moglie non smettevano di baciare i miei genitori, tanta era la felicità di averli lì. Di averci lì.
Poi, è arrivato il grande momento: il nuovo tetto!
Gli era costato mesi di sacrifici e lavoro. Ero troppo curioso.
Siamo usciti all’esterno e ci ha mostrato la sua opera: una serie di piastre di lamiera sovrapposte e spioventi che coprivano tutta la casa di mattoni rossi. Sono rimasto stupefatto.
Sulla via del ritorno ho detto a mio padre: “A pà, tutto ‘sto casino per delle lamiere?”.
“Quando il tuo tetto è di paglia per tutta la tua vita, riuscire a costruirne uno di lamiera è una cosa fantastica”.
Ci è voluto tempo, ma avevo imparato un’altra grande lezione: la percezione di ogni nostro successo o di ogni felicità è assolutamente relativa. In questa relatività giace una profonda bellezza, poichè ci insegna a guardare a ciò che abbiamo non solo con i nostri occhi, ma con gli occhi di chi non ha ciò che abbiamo noi.
Se guardavo alla mia vita con gli occhi di Inyazi, io (che avevo un tetto di mattoni) ero un re.
Mi ero mai sentito tale? No.
Eppure, avrei dovuto.
Avrei dovuto comprendere la mia fortuna e gioirne molto di più di quanto facevo (o non facevo) solitamente.
Durante il nostro ultimo viaggio abbiamo anche portato un canestro, comprato grazie ad alcuni soldi raccolti con gli amici della pallacanestro Chieti. Lo abbiamo montato sotto lo sguardo attento e stupito dei bambini del posto, e ci abbiamo giocato tutti insieme. Erano abituati a calciarlo, il pallone, e ci è voluto un po’ a spiegargli l’idea che ebbe Naismith di lanciare la palla dentro al ferro, con le mani. Quelle più a loro agio furono le suore, che sembravano le più divertite in assoluto.
Ancora oggi a volte mi chiedo…chissà se quel canestro sia ancora lì.
Spero a breve di poterlo scoprire di persona, perché il 2007 è troppo lontano ed io sento davvero il bisogno di tornare e fare qualcosa in più per l’altra metà del mio cuore, radicato in quella terra rossa come il sangue, e ricca di un amore che neanche immaginiamo.
Un amore così grande e così vero, che raramente ho ritrovato da quest’altra parte del Mediterraneo. E che mi fa pensare a quella frase che Italo Calvino inserì nel ‘Barone rampante’, oggi più attuale che mai.
“Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori.”
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